Cacata carta”, cacca scritta. È così che, nel carme 36,  Catullo definisce i versi di un tale Volusio di cui nessuno ricorda più nulla.

“Cacca scritta”, pensano gli studenti obbligati a macinare pagine e pagine composte da gente morta.

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Eppure c’è una differenza tra Volusio e Catullo: solo il secondo è riuscito a trasformare in poesia persino la cacca. E c’è un motivo se ci ricordiamo di lui, di Omero, di Shakespeare e degli altri autori che riempiono le antologie: sapevano trovare le parole giuste. Quelle che danno forma alle emozioni più confuse, quelle che aprono una porta dove prima c’era un muro, quelle che ci restano in testa mentre facciamo altro.

Per questo le rileggo, ritaglio, commento e mescolo con la realtà che ho sotto gli occhi. L’amore non corrisposto, l’ansia di prima mattina, la gelosia che non vorresti provare, la paura che ti blocca, il colpo di fulmine: è bello sapere che qualcuno si è già sentito come ci sentiamo noi. E che ce lo sa raccontare così bene. In fondo questi scrittori non erano altro che persone che parlavano alle persone.